Pisco, viaggio senza passaporto

Se si smettesse di tatuarsela, insieme ad altri classiconi come la parola resilienza o l’otto orizzontale simbolo dell’infinito, magari sarebbe anche meglio. Se davvero si cominciasse a capire cosa vuol dire, invece di riempirsene la bocca e la tastiera per il prossimo post inutile; e se davvero wanderlust si inseguisse, si tenesse come idea di riferimento, invece di sputarla fuori solo per sventolarsi l’aria di chi ne sa, probabilmente il mondo sarebbe un posto migliore. (Basterebbe anche smettere di servire un Americano con la cannuccia di plastica nera, ma questa è un’altra storia)

 

 

Wanderlust è troppo più di quello che mediamente si pensa sia. Il desiderio continuo di viaggiare, d’accordo, lo abbiamo imparato. Ma varrebbe la pena di approfondirlo un’ora in più, guardare nelle venature di cosa davvero si legge tra le pagine di questo termine che era tedesco, fu preso in prestito dagli inglesi e adesso appartiene a tutti, ovunque. È motore verso il nuovo, rifiuto verso il solito, fame di conoscere e sbagliare, muoversi e ripartire. È volersi bene quando si è soli per un po’ e detestarsi quando si è soli per troppo a lungo; è rincorsa verso posti e persone che si capisce di aver sempre inseguito, soltanto nel momento esatto in cui si raggiungono. Wanderlust è un desiderio, ma è anche un vuoto, una lacuna, un modo di vedere il mondo, uno scudo e una lancia per potersi difendere o per poter attaccare.

Deve averlo probabilmente avvertito di nuovo, Riccardo Rossi, mentre preparava lo zaino con vestiti comodi e domande da farsi e da fare, deciso a salutare il suo meraviglioso bulldog Fonzie e volarsene verso il sud del mondo. Non era certo il primo viaggio destinato a cambiargli la vita: Londra lo aveva già messo di fronte a un bivio, lui che prima ancora di mixing glass e miscelazione, aveva il cassetto pieno di sogni, cinema e fotografia, passioni enormi che ancora in qualche modo lo accompagnano. Tornare a Roma, non lontano dalla Viterbo di cui è originario e che non a caso fu terra di viaggiatori mitici come gli Etruschi, gli permise alla fine di comprendersi e segnare sulla mappa della sua anima la X della sua destinazione successiva. Riccardo è il bar manager (dal 2016 anche socio) di Freni e Frizioni, miracolo di qualità e volume che impreziosisce la scena del bere di Trastevere con il suo stemma da ex officina.

Una quindicina di ore di volo, con uno scalo in mezzo, prima di atterrare tra i confini che lo avevano attratto, in un modo o nell’altro: “Anche perché di fatto ancora nessuno ci era andato, come volevo andarci io”. Riccardo lo racconta alzando le spalle, con la voce più ruvida del solito, evidente eredità dei festeggiamenti per l’Europeo (durante la finale, Freni e Frizioni ha saggiamente e appositamente sospeso il servizio, pur rimanendo aperto). Arrivò in Perù, paese di mare e montagne, culla per premi Nobel e rivoluzionari nell’anima e nella politica: soprattutto, nazione d’origine del pisco, il distillato divenuto patrimonio nazionale, che aveva ipnotizzato Riccardo fino, appunto, a fargli divampare la wanderlust (al femminile, perché che ci piaccia o meno è una sindrome). C’era da toccare con mano, con gusto e olfatto, per spiegarsi i perché di quella calamita: più di venti bodegas, distillerie, visitate in due settimane furono un tabellino di marcia non proprio da ridere.

Il Perù, come qualsiasi terra che vibra di energia propria, alla fine rimane dentro, e il pisco è uno dei biglietti che si possono staccare ogni giorno per tornare a Macchu Picchu, in uno spicchio della Foresta Amazzonica, a Lima o sulle spiagge coccolate dall’Oceano. Riccardo ne è diventato ambasciatore e oggi è il principale punto di riferimento in Italia (e non solo) per il prodotto, che va in giro a raccontare supportato e supportando l’Ufficio Commerciale del Perù: lo abbiamo ritrovato a una masterclass organizzata appunto da PromPerù, la Commissione Peruviana per la Promozione delle Esportazioni e del Turismo del Perù,  mentre portava per mano i presenti tra diapositive e ricordi di un’esperienza poi divenuta pietra miliare della sua vita.

Le otto uve pisqueras, divise tra aromatiche e non aromatiche, che fermentano e danno vita alle varietà Puro, Acholado, Mosto Verde; le regioni specifiche di distillazione (“sono arrivato fino a Tacna, roba che nemmeno i peruviani fanno”), al di fuori delle quali non è permesso distillare pisco; le leggende sulla sua origine, il nome che deriva da uccelli, da un porto, da artigiani; la corsa all’oro di cui fu protagonista in California, la diatriba con il Cile, i processi di produzione rigorosi e veri. E foto, cartine, profumi: basta ascoltarlo un’ora, poi è una lotta durissima contro il desiderio di partire immediatamente. Contro la wanderlust.

 

Riccardo è tornato una seconda volta in Perù, accolto da Johnny Schuler, autentico guru del pisco, che distilla, scrive, narra, giudica e celebra. Uno che nelle vasche di fermentazione ci è probabilmente nato, e tutt’oggi è master distiller di Pisco Portòn, una delle prime hacièndas sudamericane: dal 1684 è lì che produce, mantenendo l’orgoglio e la veracità di secoli di tradizione, arrivando oggi a essere il pisco più esportato al mondo. Sostenibile (Portòn ha orti naturali di proprietà, e gli scarti sono usati come fertilizzanti), autentico, identitario: da bevanda povera a chicca di miscelazione, un viaggio (ovviamente) che riparte con ogni bottiglia stappata, e ancora di più si ripresenta quando viene raccontato da chi nel pisco ha trovato un’ispirazione, come Riccardo, o una missione, come Ivan Castillo, che da Lima si trapiantò in Italia e oggi è brand ambassador di Portòn. Nelle loro parole si riascoltano i canti dei cholos, si ripercorrono le fatiche attorno al mosto, si scende nelle strade delle città nascoste e magiche di un paese che ha così tanto da far vivere, eppure così poco di davvero conosciuto.

Wanderlust alla fine è tutto questo. Saprete di esserne portatori sani quando le pupille vi si dilateranno e rimarrete in silenzio a guardare il tratto rosso dell’itinerario di Riccardo in Perù (forse un po’ meno se invece vi concentrerete su un suo improbabile autoscatto con un lama); quando Ivan, tra l’altro padre di una meravigliosa famiglia, vi terrà seduti ore a descrivervi le note di ciascun uvaggio e nelle orecchie vi fischieranno i venti freddi da sud e le onde sulla costa di Paita; quando scorrerete le dita sulla bottiglia opaca di Portòn, e immaginerete di avere tra le mani la lucùma, la uciuva e altri frutti setosi e sognanti che si trovano solo in Perù; o più in generale, quando avrete letto le ultime righe di un libro, fatto scorrere i titoli di coda di un film, lasciato sfumare gli ultimi secondi di una canzone, e sentirete un fremito scuotervi perché vorrete raggiungere quei luoghi, quei sapori, quegli uomini e quelle donne. 

Anche, e alcune volte soprattutto, wanderlust è l’impulso che abbiamo di muoverci per cercare un luogo dove sapremo di sentirci noi stessi. Una città che ci dia la sensazione di averci sempre aspettato, uno spazio che con luci, sorrisi e tempi ci faccia capire di essere dove dovremmo essere, naturalmente. Vale per l’umanità, ma anche per qualsiasi cosa esista, quindi un fiore, un piatto, una musica saranno a loro modo alla ricerca del loro posto nel mondo, dove avranno ancora più senso del normale perché in quelle condizioni potranno esprimersi fino in fondo. È il motivo per cui due bottiglie dello stesso vino, identiche per annata, conservazione, composizione, avranno sapori completamente diversi, quando non opposti, se degustate in luoghi, ma soprattutto momenti diversi: ha tutto un senso, sempre, serve soltanto cercare dove quel senso si esprime del tutto.

Vi sfidiamo quindi a trovare un luogo migliore, dove Pisco Portòn avrebbe potuto mettere radici, rispetto al Nik’s&Co. Dove la visione di Leo Sculli ha creato la dimensione di Nik, viaggiatore per definizione, che nei menu descrive tappe ed emozioni attraverso disegni a carboncino e barba incolta; dove il rock bartender Selvi Panepinto ha trovato una casa, dopo anni di pellegrinaggio alle curvature estreme del pianeta, dall’Australia ai Caraibi, inseguendo senza volerlo un Rolling Stone; dove in una guest shift con Cèsar Araujo, altro peruano oggi stabile a Milano alla guida del BoB, ogni goccia (distillata e non) di cultura del Perù e finita nei cocktail, nei piatti, nella musica.

Il Nik’s&Co ha oggi una varietà di pisco propria, che Portòn realizza seguendo le istruzioni di Leo e Selvi: nella finestrella in etichetta si vede il cappello a falda larga di Nik, stretto nel gilet che lo ha accompagnato in ogni continente, a scrivere il diario che potete leggere nella drink list. Passate a trovarlo, a trovare i ragazzi. Volate in Perù, appena ne avrete la possibilità, magari fermandovi a Roma prima, per ascoltare una volta di più i ricordi di Riccardo Rossi (che inoltre giura “se sono riuscito a girarlo io, da solo, può farcela chiunque”). E assecondate la vostra wanderlust: per trovarsi, in fondo, da qualche parte bisogna pur iniziare a perdersi.

 

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?